Il palazzo papale è il monumento più importante della città. Fu costruito per offrire ai pontefici una sede consona quando venivamo a Viterbo per allontanarsi dalle continue sommosse che scioppiavano a Roma. I papi che si erano rifugiati nella città erano stati quasi sempre ospitati nel palazzo degli Alemanni, ma questo palazzo non era adeguato ed era troppo lontano dalla Cattedrale dove si svolgevano le più solenni funzioni religiose. Per rendere il palazzo sicuro, fu scelto come luogo di costruzione il vecchio castello di S. Lorenzo sul colle del duomo, circondato da rupi a picco sulla valle sottostante ed avente un solo accesso dall’antico ponte etrusco-romano. La nuova costruzione posta sul lato nord della chiesa avrebbe comunicato con essa attraverso le stanze episcopali interposte tra i due edifici. I lavori iniziarono nel 1257 sotto il capitano del popolo Raniero Gatti e fu terminato nel 1266. Nel 1267, sotto il capitano del popolo Andrea di Beraldo Gatti, furono aggiunte la loggia e la grandiosa gradinata. La loggia probabilmente non era compresa nel progetto originale. Essa fu aggiunta per permettere al pontefice di impartire la benedizione alla folla. Il palazzo è collocato in una piazza dove spiccano la facciata barocca della cattedrale, la torre campanaria a fasce bianche e nere e la casa di Valentino della Pagnotta del 1300. Gli elementi architettonici della costruzione sono semplici, la lunga facciata del palazzo è coronata in cima da un ordine di merli rettangolari guelfi che in origine dovevano stagliarsi artisticamente contro il cielo prima che il tetto del salone venisse rialzato. Poco al di sotto dei merli ci sono sei finestre strette e oblunghe. Più in basso sei ricchi finestroni bifori ed un grande portale movimentano la facciata. Sulla porta, al di sopra dell’epigrafe di Raniero Gatti, su una mensola si trova il Leone del Comune di marmo bianco, leone al quale fu spezzata la Palma. Bifore e porta sono tutte ad arco tondo, sormontate e collegate tra loro da una ghiera che gira a soprarco su di esse e si stende per tutta la lunghezza del palazzo. I due archetti trilobati di ciascun finestrone, aventi negli estradossi tre rosoncini traforati, poggiano sulla colonnina di mezzo e su mezze colonnine ai lati. Tutte le bifore sono poste ad intervalli regolari sopra una stretta cornice, appena sagomata, che si prolunga lungo tutta la facciata. Da questa, sino a terra, il muro scende nudo, senz’altra apertura di due portoni ad arco acuto giù nel fossato. Davanti alla piazza si protende una scala imponente che conduce mediante un ampio ripiano alla porta principale del palazzo. Il ripiano è sorretto da un grande arco schiacciato che scavalca il fossato ai piedi della facciata ed ha per riparo due davanzali muniti all’interno di sedili e modellati nella parte esterna come gli ammirevoli profferli disseminati nella parte antica della città. Le fiancate della scalinata sono decorate da larghe fasce rettangolari e dalle caratteristiche testate degli scalini sporgenti del muro, riuniti da una cornice che li collega l’uno all’altro. Su entrambi i lati all’imbocco del ripiano, due alte colonne decorative ritte su stilobati che scendono sino a terra. Su questa e sulla facciata del palazzo si vedono stemmi dei Gatti, alcuni a cinque barre orizzontali ed altri a quattro barre verticali. Sulla barra più alta di questi ultimi era scolpito il gatto che poi venne scalpellato in odio di Silvestro Gatti, tiranno della citta’ dal 1325 al 1329. Allineata al palazzo sorge sul lato nord la loggia papale che tempera l’aspetto troppo crudo e disadorno dell’ edificio. Originariamente, l’epigrafe che ricorda Andrea di Beraldo che la fece costruire, era in caratteri dorati e gli stemmi della trabeazione erano policromi. La loggia è stata senz’altro concepita da un maestro diverso da quello del palazzo; lo attestano lo stile che si avvicina al gotico puro, lo sviluppo più ricco dato alle parti ornamentali, le lobature degli archetti del loggiato, piegate più risolutamente ad ogiva. Ciò nonostante c’è armonia tra le due parti che compongono il complesso, ottenuta soprattutto con quella cornice che, condotta al di sotto delle bifore e del loggiato, collega ambedue i prospetti in una sintesi architettonica non comune. Sopra un grande arco sostenuto da una massiccia colonna ottagonale che racchiude una cisterna, si eleva un doppio ordine di otto colonnine; su queste poggiano altrettanti archetti, intrecciati tra loro formando archi tondi ed acuti. Su questi incombe una arditissima trabeazione coronata da una cornice che nell’attico e nel fregio è riccamente adorna di stemmi. La chiesa era rappresentata dalle mitrie, dalle chiavi incrociate e dalle aquile dalle ali spiegate; la famiglia Gatti dagli scudi con cinque barre orizzontali ed Il leone rampante era il simbolo della città. Inizialmente anche il lato verso la valle aveva un prospetto simile e la loggia era coperta da un tetto a due spioventi. Il palazzo per tutta la lunghezza della facciata racchiudeva un solo salone, detto del conclave (1) , dalle pareti di nuda pietra e privo di ogni decorazione, ai lati di ciascun finestrone due sedili incassati. Questa grande sala era stata progettata per le grandi adunate della chiesa e fungeva da anticamera degli appartamenti papali.Il palazzo Papale è in stile Romanico Lombardo, tuttavia il costruttore adottò il nuovo stile Gotico nelle parti ornamentali dell’edificio e rafforzò le mura posteriori di contrafforti che erano uno dei caratteri salienti di questo stile. Ben presto le varie membrature della Loggia papale risultarono deboli. Il peso delle due trabeazioni, l’enorme spinta del tetto, l'esilità delle sedici colonnine abbinate sottoposte ad un carico troppo sproporzionato alla loro resistenza, l’imperfetto concatenamento tra palazzo e loggia, avevano prodotto fin dai primi anni qualche incurvatura nel prospetto sud, manifestatesi con una sensibile fenditura di distacco tra le due pareti (la crepa se pur tamponata è visibile ancor oggi). Per scongiurare il crollo dell’edificio furono rafforzate le parti estreme del loggiato: fu murata la porticina ad arco tondo che immette sul ripiano della grande scalinata e l’ultimo arco del portichetto sul lato orientale. Tali misure non si rivelarono adeguate. All’inizio del XIV secolo l’avvallamento del prospetto della loggia sulla piazza del Duomo si fece sempre più minaccioso fino a che, a causa della pressione, si sfaldarono alcune colonnine reggenti l’intreccio degli archi. Il pericolo di crollo era reale, ma dopo l'allontanamento della sede papale dovuta ai tafferugli del 1281, il palazzo era caduto nel più totale abbandono. Il problema fu segnalato al pontefice che in quel periodo risiedeva in Francia; Giovanni XXII ingiunse al suo cappellano, rettore del patrimonio, di intimare al Comune di Viterbo l’obbligo di intervenire. Purtroppo il comune non fece nulla e il prospetto nord, insieme al tetto, rovinò improvvisamente. Il Comune non potendo restaurare l’intero complesso, si limitò ad impedire il crollo del prospetto meridionale facendo murare i vani delle arcate. Nel 1548 il cardinale Niccolò Ridolfi pensò far restaurare la loggia ma non se ne fece niente perché Ridolfi fu trasferito al vescovado di Orvieto. Qualcuno dei suoi successori si limitò a far costruire un parapetto utilizzando parte del materiale crollato. Gli altri frammenti ornamentali furono sparsi qua e là all’interno della Loggia; gli stemmi gatteschi vennero posti intorno alla fontana con altre insegne gentilizie di vescovi del XV e XVI secolo. La bella cornice della trabeazione fu adoperata più tardi per decorare la fronte di quella specie di antiporta che fu innalzata verso la fine del ‘400 forse a scopo di difesa.
Nel 1474 il vescovo Francesco Maria Visconti ottenne il permesso dal Consiglio del Comune di chiudere l’antica strada che da dietro la cattedrale collegava l’antico castello di S. Lorenzo alla chiesa di S. Clemente. Questa via era divenuta un covo di delinquenti e lebbrosi ed il vescovo trasformò tutta l’area in orti e giardini dell’episcopio. Occorrevano locali come magazzini e serre che furono ottenuti chiudendo il fossato antistante il palazzo e dotandoli di una tettoia che si prolungava sotto le ultime quattro finestre, fin quasi alla grande scala. In quel tempo si andava rafforzando il potere temporali dei papi; il Concilio Lateranense e quello Trentino avevano ampliato considerevolmente le giurisdizioni vescovili, alle curie di conseguenza erano addette un gran numero di persone; occorreva acquisire nuovi spazi. Il primo vescovo che a Viterbo pose mano all’ampliamento della sua Curia fu Sebastiano Gualterio di Orvieto (1551-1566), riadattando le due antiche stanze a fianco del salone del conclave, dotando il salone dei servi di un soffitto a cassettoni nel mezzo del quale fece porre il suo stemma(tre barre orizzontali caricate di tre palle) e facendo scolpire il suo nome sugli architravi delle quattro porte. Colui tuttavia che deturpò maggiormente la facciata del palazzo fu il cardinale Giovan Francesco De Gàmbara di Brescia (1566-1587) che ordinò il rifacimento della facciata della cattedrale e l’ammodernamento del palazzo vescovile. Egli fece innalzare un nuovo fabbricato a due piani sopra le serre del Visconti. In tal modo venivano coperti i finestroni gotici ed i merli dell’antico edificio; il tetto del salone del conclave fu alzato di oltre due metri per raccordarlo con quello della nuova costruzione. All’interno del salone del conclave fece sparire le bifore gotiche, aprì sulla valle di Faul quattro enormi finestre rettangolari, fece erigere alle estremità del salone due enormi porte cinquecentesche, le pareti, di nuda pietra, furono intonacate. All’esterno l’antiporta eretta alla sommità della scalinata fu alzata per raccordarsi con la nuova costruzione. Lo stile dell’antico edificio romanico-lombardo scomparve sotto il nuovo fabbricato. Nel 1897, monsignor Francesco Ragonesi, vicario generale della diocesi e gerente del vescovo Eugenio Clari decise di far risorgere in tutta la sua bellezza il monumento. Venne allora demolito il muro all’interno del salone, nel punto in cui corrispondevano all’esterno i finestroni ogivali della facciata settentrionale del palazzo, si scoprì così che essi conservavano i loro principali frammenti e poterono essere restaurati facilmente. Risultati tanto positivi, spinsero a far le stesse esplorazioni sulla parete contrapposta: vennero alla luce i sei finestroni della facciata meridionale, anche se più rovinati rispetto a quelli della parte nord. Si iniziarono i lavori di ripristino dei sei finestroni nella parete settentrionale ma intervenne l’ufficio regionale di Roma che fece sospendere i lavori per la mancanza di un piano di massima. La curia vescovile affidò il progetto di restauro all’architetto Paolo Zampi di Orvieto e, dopo l’approvazione da parte del Ministero della Pubblica Istruzione, i lavori furono eseguiti a spese dell’amministrazione vescovile. Per intervenire allo stesso modo anche sulla parete meridionale e sulla Loggia, visti gli elevati costi, la Curia inviò al Ministero una richiesta di fondi. L'architetto Giulio De Angelis, capo dell’ufficio regionale di Roma, commissionò all’Ispettore locale un progetto tecnico del restauro della Loggia e un disegno geometrico che ponesse in rilievo le parti scampate alla deturpazione. Lo studio preliminare fu eseguito dallo stesso De Angelis, l’architetto Pietro Guidi seguì l’opera di restauro dall’inizio alla fine. L’esecuzione fu affidata al maestro Giovanni Nottola presidente della cooperativa degli scalpellini viterbesi. Venne anche richiesto l’aiuto del Laboratorio per le esperienze sui materiali da costruzione della Scuola d’applicazione degli ingegneri di Torino; fu stabilito che il crollo di una parte della Loggia era stato causato dall’eccessiva friabilità del peperino, incapace di sopportare il peso della trabeazione e la spinta del tetto. Così quest’ultimo e l’ala nord della Loggia non furono ripristinati, mentre venne inserita una trave di cemento armato all’interno della trabeazione. L’operazione non fu facile: le pietre vennero tolte una ad una e numerate, per essere poi ricomposte secondo l’ordine originale. Le parti decorative deperite o mancanti furono fedelmente riprodotte in peperino dal maestro Nottola. Il restauro della Loggia, iniziato il 30 novembre 1903, terminò il 30 agosto 1904. Nel frattempo l’ispettore locale aveva iniziato le trattative con la Curia, per demolire il palazzo fatto costruire dal Gàmbara. Fino ad allora erano state abbattute solo l’antiporta e le due camere della Vicaria attigue al ripiano della scala; erano state così scoperte due delle stupende bifore della facciata medievale. Il vescovo Antonio Maria Grasselli, succeduto al Clari, promise che avrebbe fatto restaurare i due finestroni e l’intero palazzo a sue spese; purtroppo però, a causa dei costi eccessivi sostenuti per il miglioramento di alcune chiese viterbesi, non poté mantenere le promesse fatte. Fu raggiunto infine un accordo per la demolizione della Vicaria: la Curia chiedeva la costruzione in un’altra area del palazzo, di quattro camere per gli alloggi della servitù, di una rimessa e di una scuderia; il vescovo da parte sua avrebbe ripristinato a sue spese i restanti finestroni del palazzo. Visto che il ministero concesse solo 1/3 dei fondi necessari, fu solo grazie alla generosità del vescovo che il restauro venne portato a termine. L’ingegnere Giulio Saveri fu incaricato di costruire gli alloggi per la servitù, destinando i soldi rimasti ai lavori per riportare alla luce la facciata del ‘200. La parte più difficile era stata ormai eseguita: restava solo la grande scalinata di accesso al palazzo e i parapetti del ripiano, in parte rovinati. Ancora una volta lo studio per il restauro fu affidato al Guidi. L’unico problema per una ricostruzione rigorosamente autentica, era costituito dal ritrovamento di due pilastri, avvenuto durante la demolizione dell’antiporta, su cui erano collocate due basi circolari con doppio toro, listello e imoscapo; erano state evidentemente poste là per sorreggere due colonne, di cui però non si era mai avuta notizia.Dalla forma, era facile intuire che erano state probabilmente destinate a levare in alto il Leone con la palma, simbolo della città di Viterbo. Vennero due commissari della Giunta, Camillo Boito e Alfredo D’Andrade, e decisero di ripristinare le due colonne sulla scala del palazzo; esse furono modellate prendendo ad esempio quelle esistenti a piazza del Comune. Rimase sospesa la riproduzione dei leoni in quanto gli studiosi si riservarono di decidere in quale posizione montarli dopo aver visto l’effetto prospettico dell’insieme. La decisione di produrre i leoni che dovevano sormontare le due colonne in cima alla scalinata d’ingresso è ancora sospesa. Il progetto di restauro presentato da Guidi venne approvato prima dalle Belle Arti e poi dal Ministero ed il 30 gennaio 1908 fu portato a compimento. Il restauro del palazzo ha riguardato principalmente l’esterno. All’interno rimangono ancora zone che non sono state ripristinate.Tipico esempio è il grande salone che si trova sopra la sala Gualtieri.

1) Don Cesare Carosi nel suo libro "Della chiesa cattedrale sotto il titolo di S.Lorenzo m. e dell'annesso palazzo vescovile di Viterbo",sostiene che la sala del conclave non poteva essere l'ingresso del palazzo, molto probabilmente era situata in una quarta sala che ora è divisa in quattro camere e ha murati i finestroni quadrifori e due grandi archi acuti fino al tetto con stemmi in pietra dipinti. Il salone detto del conclave non era che un maestoso ingresso al palazzo e luogo destinato a corpo di guardia. La vera sala del conclave molto probabilmente era in fondo al palazzo il cui fabbricato si estendeva per tutto quello che oggi è il giardino, forse fino alla chiesa di S. Clemente.

 

(Alessandra  Ambrosini)

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Opere consultate:
CESARE CAROSI, Della chiesa cattedrale sotto il titolo di S.Lorenzo m. e dell'annesso palazzo vescovile di Viterbo, Viterbo, De Perotti Tosoni, 1906
PIETRO EGIDI, Viterbo, Napoli, 1912
CESARE PINZI, Il Palazo papale di Viterbo nell’arte e nella storia, Viterbo, 1910
CESARE PINZI, Storia della città di Viterbo, Roma, 1913
MARIO SIGNORELLI, Il palazzo papale e la cattedrale di San Lorenzo, Viterbo, 1962
MARIO SIGNORELLI, Storia breve di Viterbo, Viterbo, 1965
MARIO PETRASSI – ARRIGO PECCHIOLI – ORSINO ORSINI – SANDRO VISMARA, Viterbo città pontificia, Roma, 1980
SALVATORE DEL CIUCO, La cattedrale di Viterbo e il palazzo papale, Bolsena, 1986
ATTILIO CAROSI, Sono guelfe e non imperiali le aquile sulla Loggia del Palazzo dei Papi, in «Biblioteca e Società», Vol.XXVI, n.2, Viterbo 1994, p.12.