Sul lato destro della piazza dedicata a Mario Fani, in passato già piazza Giordano Bruno, sorge un corpo di fabbricato che sporge sulla piazza.
Rivestito fino alla metà da un grandioso bugnato in peperino è quanto resta dell'antica chiesa di Santa Croce dei Mercanti.
Già esistente in quel luogo dal 1173, parrocchia fino al 1562, passata poi all'arte dei mercanti e oggi di proprietà dell'Amministrazione Provinciale che l'ha trasformata in una sala dedicata a mostre e convegni.
Sul prospetto che fronteggia via Saffi è rimarchevole il portale di detta chiesa, esso fu costruito nel 1371 a spese di messer Angelo Tavernini, tesoriere del patrimonio, che aveva la propria abitazione sulla piazza. Era questo messere un grande usuraio (si narra che facesse persino scoperchiare le case di coloro che non riuscivano a pagare in tempo i propri debiti), spinto forse dai rimorsi, impiegò parte dei guadagni indegnamente ottenuti per donare alla città il notevole monumento. Questa azione, tuttavia, non servì a restituirgli la stima dei concittadini che tre anni dopo lo cacciarono dalla città.
Certamente il portale di Santa Maria della Salute, di mezzo secolo antecedente, ispirò l'ignoto artefice locale che scolpì questo di Santa Croce. In entrambi ricorre il tralcio di vite, ricco di grappoli e pampini ma quì, a differenza dell'altro nel quale è appena accennato, abbonda l'uso della decorazione a punta di diamante. Questo tipo di decorazione è tipica di tutte le principali costruzioni del tempo.
Gli stemmi scolpiti su due conci ai lati del portale sono della famiglia dei Tavernini e sono gli stessi che ritroviamo sulle mura castellane nel tratto che attraversano i resti del castello di Federico II.
Nei pressi di questa chiesa, in casa di un certo Giovambattista Dellituare, nel 1474 per concessione di papa Sisto IV venne istituita una zecca che però fu chiusa due anni dopo, alla morte del papa, perché ritenuta dannosa per la città di Viterbo. Quella della zecca che non incontrava il favore dei viterbesi era una questione annosa, già nel 1457, allorché si era fatto un tentativo per impiantarla, fu bersaglio dei motti spiritosi e umoristici. Riporta lo Scriattoli che Pietro Lunensi, un ricco prelato del tempo, diceva: "Questa benedetta zecca la capisco come animale attaccato alla coda (il termine coda è una traduzione edulcorata di quello usato dal Lunensi) delle giumente, ma non mi piace quì nella città , dove la cupidigia del denaro potrebbe indurre i cittadini a distruggere le antiche suppellettili domestiche per farne monete".
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Opere consultate:
CESARE PINZI, I principali monumenti di Viterbo, Viterbo, Sette Città, 2a edizione, 1999.
A. SCRIATTOLI, Viterbo nei suoi monumenti, Viterbo, FAVL Edizioni Artistiche, 1988